mercoledì 12 ottobre 2016

Ambra

Ti ho conosciuta il 5 maggio 2012, in occasione di un pranzo organizzato dal nostro comune amico Aldo. Era un periodo molto buio, per me, di grande smarrimento e prostrazione.
Sono arrivata all'appuntamento sentendomi come Freddie in Show must go on: inside my heart is breaking, my make-up may be flaking but my smile still stays on. Così stavo in quei giorni, così stavo anche in quella mattina calda e luminosa al centro dei giardini di Piazza Vittorio.
Poi, volgendo lo sguardo intorno a quel capannello di estranei, ho captato una vibrazione insolita di straordinaria intensità. Veniva dal tuo sorriso. Un sorriso singolare, pieno di un fascino schietto ed enigmatico assieme, incredibilmente attraente ed espressivo: di grazia e di forza, di discrezione e comprensione, di signorilità e di umanità. Un sorriso sapiente, dei segreti misteri della vita, che agganciava l'anima di coloro a cui veniva rivolto. Con quel sorriso mi hai istantaneamente catturato. A tavola, dove ci siamo trovate sedute vicine, mi pareva che da te si irraggiasse un flusso di energia tanto potente da risucchiarmi, sollevando il mio spirito, restituendomi alla vita.


Da lì, in maniera spontanea, è nata la nostra corrispondenza affettiva. Giorno dopo giorno tu sei divenuta per me, che mi dibattevo nei miei tormenti interiori, uno dei sostegni più importanti. Le tue preziose visite al mio blog erano nutrimento essenziale per la mia anima. Nelle nostre discussioni, che tu hai avuto la generosità di fissare e raccogliere per me in quattro libri che serbo come tesoro inestimabile, mi sembrava che con le parole colmassimo la lontananza tra di noi: tu venivi da me sulle ali impalpabili dei tuoi pensieri e anch'io, di rimando, spiccavo il volo, per incontrarmi con te a metà strada. Poi, ogni tanto, ci incontravamo davvero, da sole o assieme agli altri amici blogger; e il piacere di stare insieme, di discorrere faccia a faccia, di esplorare luoghi, fare esperienze, in reciproca compagnia, rafforzava l'intesa, la sintonia, la confidenza, donandomi ricordi bellissimi che terrò stretti per il resto della mia vita.
L'affinità elettiva tra di noi per me è stata una grazia, un privilegio tanto immeritato quanto benedetto. Tu mi hai aiutato a uscire dalla palude in cui ero sprofondata, Ambra mia. Hai fattivamente contribuito a salvarmi la vita assai più di quanto abbia fatto chiunque altro.
Per questo tu sarai sempre viva per me e in me. Questo distacco atroce e inaspettato, che mi lascia sgomenta, non ha il potere di troncare nulla del nostro dialogo. Oh, sì, il rimpianto di non averti nemmeno salutata, il pensiero delle tante cose che son rimaste da dire, mi frastorna. Ma persino nel distacco tu mi offri un altro tassello fondamentale per la comprensione della verità, per il vaglio della moneta buona da quella falsa.
Perché io, tu lo sai, ho patito tanto la scomparsa di persone conosciute qua sopra che ho ritenuto carissime. Persone di cui ho dovuto accettare una fittizia quanto irreversibile dipartita perché, pur continuando ad esistere, esse si sono scollegate da me. Ebbene, questo dolore, ormai evanescente, impallidisce fino ad estinguersi, davanti alla realtà brutale, crudele, della tua morte. Tu non sei più qui fisicamente, Ambra, ed è straziante pensare che non potrò mai più avere il bene su questa terra di vedere il tuo sorriso, di ascoltarti, di leggerti, di starti accanto. Però il collegamento con te, invece, quello non si è spezzato. E non si spezzerà mai, resterà vivo e reale per sempre.







lunedì 23 febbraio 2015

Here lies one whose name was writ in water

(Poiché fuori di me perdurano, fastidiose, le mie tenzoni quotidiane, e dentro di me perdura, invincibile, la calma piatta, per ricordare a me stessa e a chi si ricordasse ancora di me che sono viva, e, più in generale, che sono, lascio qui una cosa che scrissi molti mesi fa per il mensile on line con cui collaboro da un anno, Operaincerta. E' scritta in verità a quattro mani, in differita: nel senso che le prime due mani sono quelle di mia sorella, che sulla vita e sulla poetica di Keats, che in lui sono tutt'uno, compose la sua prima tesi di laurea (la prima delle sue lauree) una ventina d'anni orsono; le altre due, estrapolanti e rielaboranti in tempi recenti una minima parte di quel lavoro ricchissimo, sono le mie, che attraverso lei ho conosciuto ed amato - allora in modo istintivo, approssimativo e tutto sentimentale, oggi con infinita maggior cognizione di causa per la superiore comprensione della bontà e giustezza delle sue intuizioni sulla vita e sull'amore e per la sopraggiunta capacità di riconoscermi ed immedesimarmi  in esse che mi ha donato la maturità - quel giovane oscuro e fulgente, glorioso e nascosto, che finì di consumare la sua vita in questa notte del 23 febbraio, in questa Roma che è la mia città, ed è rimasta, per sempre, anche la sua.)

Possono ben capitare, al turista che visita Roma, attacchi di sindrome di Stendhal: momenti in cui l'innumerevole e ingombrante bellezza che lo circonda da ogni parte arrivi ad inebriarlo fino ad un punto di sopraffazione, e l'emozione per tanto splendore giunga inopinatamente a tramutarsi in parossistica vertigine, palpitazioni cardiache, nausea e sudori freddi da panico.
In simili frangenti egli può, se ha la ventura di stare aggirandosi nei pressi della Piramide Cestia, tra Testaccio e Porta San Paolo, correre a rifugiarsi e riprendere fiato nella quiete fuori dal tempo di un giardino antico protetto da alte mura.
Quel giardino, oasi incantata di pace e di silenzio in mezzo al caos frenetico della città, è il bellissimo cimitero acattolico che lo scrittore Henry James definì " una mescolanza di lacrime e sorrisi, di pietre e di fiori, di cipressi in lutto e di cielo luminoso, che ci dà l'impressione di volgere uno sguardo alla morte dal lato più felice della tomba".
Lì, dopo essersi ritemprato, può partire senza fretta per una passeggiata esplorativa, alla ricerca del fazzoletto di terra dove sono custodite le ceneri di Gramsci, e poi di quelli dove riposano le spoglie mortali di poeti, politici, filosofi e scrittori - Percy Bysse Shelley, Dario Bellezza, Carlo Emilio Gadda, Luce D'Eramo, Amelia Rosselli, Antonio Labriola, Miriam Mafai - ma anche di un figlio di Goethe morto bambino, della moglie di Altiero Spinelli, dell'attrice Belinda Lee.
Finché in questa perlustrazione i suoi passi lo condurranno inevitabilmente nei pressi dell'angolo più remoto, più dolce e più vetusto, quasi a ridosso del muro di cinta confinante con la Piramide Cestia - accanto al sepolcro di Joseph Severn, pittore suo connazionale che quasi senza conoscerlo accettò di imbarcarsi con lui per l'Italia per essergli dapprima coinquilino e poi unico fraterno appoggio nel suo estremo soggiorno romano fino a vederselo spirare tra le braccia -, davanti alla lapide di "a young english poet" morto di tisi in un appartamento di Piazza di Spagna, dove si era trasferito lasciando le brume natie nel tentativo di strappare ancora tempo alla malattia, la sera del 23 febbraio 1821, a soli venticinque anni.
Questo giovane inglese, per cui vita e pensiero poetico furono indissolubilmente intrecciati; che coniò per il poeta, e dunque per se stesso, la definizione di "più impoetica delle creature"; che del suo fallimento di uomo, di artista e di essere vivente fece la cifra necessaria, altissima e sublime, sacerdotale, della sua esistenza, lasciandone testimonianza nelle parole che volle gli fossero incise sulla tomba ("qui giace Uno il cui nome fu scritto nell'acqua"); e che a distanza di due secoli si trova invece saldamente collocato, assieme a Shelley e Byron, nell'Empireo dei pilastri del Romanticismo inglese e mondiale, è John Keats.
Meno noto alle masse degli altri due più baldanzosi compagni di gloria letteraria, Keats fu realmente, nel suo breve passaggio terreno, un uomo dimesso e oscuro. La crisi fu la sua costante condizione, la sua autentica pelle, l'aria che respirava: nella sua quotidianità difficile, costellata di disgrazie, disagi e ristrettezze economiche, come nella sua interiorità ipersensibile di adolescente, e poi di giovanissimo uomo posseduto dal demone dell'amore, di una passione che, proprio per essere, come lui affermò, "la cosa per cui voglio vivere" fu, precisamente, la "grande ragione" della sua morte; e anche nella sua consapevolezza di rappresentante di un'umanità della terra al tramonto, dove, caduti gli antichi dei assieme alle certezze illuministiche, si può solo cantare la stagione dell'autunno, dell'indolenza, dell'inerzia che è l'infinito silenzio della pura esistenza.
Fu questo il tragico paradosso di cui, nella folgorante e letale stagione della sua giovinezza, che è tutta la maturità che gli fu concessa, Keats prese sempre più coscienza: l'irresolubile, fatale circostanza per cui la bellezza della vita è mortalità, e non si può sfuggire alla mortalità se non attraverso la morte, che quella bellezza, quella vita distruggerà. Una morte Keats che non dovette nemmeno tentare di procacciarsi per poter entrare nella leggenda romantica, perché, per strana ironia della sorte, mentre scriveva la manciata di opere costituenti l'intero suo lascito ai posteri, minato dalla malattia, stava già lentamente morendo. 
La tanto prematura sua dipartita dal mondo nel nascondimento, lontano da tutto e da tutti - dalla patria, dagli amici, dai suoi cari, da Fanny Browne, la ragazza amata di un amore profondo, intenso e tormentato - assomiglia molto al fade away, lo svanire che è sprofondamento dolce, lieve, nell'oblio, dissoluzione come estrema chance di condividere l'essenza stessa del tempo, di assecondarlo fluidificandosi per attutirne i colpi, punto d'approdo della tematica da lui professata e vissuta come una religione del cuore e cantata nella lirica sua più nota, quell'Ode to a Nightingale costituente il suo marchio di fabbrica nell'immortale espressione Tender is the night. È come lo straziante avverarsi di un desiderio di morte: una morte accolta ed invocata non tanto come liberazione dello spirito, quanto come reintegrazione nella natura, nell'oltre indistinto, oscuro e insondabile, l'orizzonte invisibile che la voce dell'usignolo invade e oltrepassa laddove la coscienza, il "self", dell'essere umano lo serra e costringe impedendogli di spiccare lo stesso salto, nemmeno se librato sulle ali della poesia.
È per questo struggente ed esemplare, la parabola umana di sofferenza e morte precoce di un artista che fece del suo passaggio terreno una missione etica tradotta in effettiva esperienza poetica per sua propria volontà e, al contempo, senza possibilità di altra scelta. Keats muore giovane poiché è giovane, poco più che un ragazzo, e come ogni ragazzo ama la vita: davvero per lui questo è tutto ciò che sappiamo a questo mondo, e tutto ciò che ci serve di sapere; e per sentirsi vivo accetta tutto, anche se sentirsi vivo fino in fondo significa conoscersi mortale, e abbracciare la mortalità fino alle estreme conseguenze, fino al punto di esperire la caducità nel suo compimento, e il compimento nella caducità. Questa consapevolezza è tuttavia radicalmente aliena dal pessimismo: diversamente da Leopardi, che di fronte alla sua ambivalenza conclude che la natura non è né buona né cattiva, ma indifferente, Keats la ama troppo per arrivare ad una simile considerazione; la ama, e continua ad amarla, perché è bella: ed è bella perché è viva. "Beauty is truth, truth beauty", la sua professione di fede mai sconfessata, significa in eterno per lui che tutto ciò che esiste è bello perché è vivo, e la sua bellezza è "a joy forever".
È toccante il contrasto tra la tra la "felicità deliberata" della poesia di Keats e la tristezza che caratterizzò la sua esistenza: una dicotomia che egli porta addosso in ogni istante come il segno sacramentale di una vocazione suprema. Alla ricerca di un sistema di salvezza più soddisfacente di quello delle religioni tradizionali, di un senso ultimo dell'esistenza in un mondo dominato dall'infelicità, dal dolore e dalla finitudine, l'acutezza della sua visione si concretizza in una crescente oscurità: più si scruta nell'abisso, nel "Mist", il peso evanescente (come la nebbia; che per un inglese non è un concetto, ma un'immagine di vivida concretezza) che lo opprime, uomo tra gli uomini, spingendolo, mediante l'amore, la bellezza e l'arte, a tentare di diradarlo superando i limiti della mortalità, più la tenebra si infittisce. L'illuminazione poetica svela solo una cecità più profonda: ne consegue una nostalgia per qualcosa di inafferrabile tanto sublime e intensa da generare un confine in cui piacere e dolore, pur distinti, diventano inestricabili. Se sentire per l'essere mortale è soffrire, solo accogliendo la sofferenza si può gustare sino in fondo la bellezza della vita. L'amaro che resta in fondo al calice è il residuo inevitabile di una dolcezza che nel contrasto esce esaltata. La notte del "Mist" fa dunque eco alla "notte del cuore", in una risonanza che è la vibrazione dell'esistere, come il movimento di sistole e diastole delle pulsazioni, che Keats battezza "malinconia" e che celebra nella sua ultima ode, "To Autumn", la stagione dolce,  quieta, gravida di languida pienezza, del tramonto del ciclo della natura ch'è anche metafora del tramonto del del ciclo della vita umana.
È così, in una sorta di titanismo rovesciato, che Keats arriva a scoprire il valore della passività: la sua indolence diventa l'unica vera ricettività e creatività, l'ignoranza - che è quella dei fiori e degli uccelli, che non conoscono i misteri della vita ma li vivono - diviene saggezza: egli è giunto alla Negative capability. Non potendo guardare, come Dio creatore, nel cuore del mistero, si apre al suo destino opposto facendosi creatura, e creatura inerme e minuta: margherita, usignolo, embrione frutto dell'amore di due amanti, abbassandosi, ripiegandosi come nel bozzolo di una crisalide a condividerne nella  κένωσις il nascondimento, l'umiltà, l'essenzialità e la terribile potenza in posse di vita. È un destino che accetta comunque con sommo orgoglio: Keats, uomo moderno dalla coscienza divisa, non può schierarsi decisamente dalla parte luminosa così come non può dare voce alla divinità: la sua rimane una continua tensione verso una meta mai raggiunta.
Sta tutta qui la storia di John Keats: in una traiettoria incompiuta. Il suo strumento ha delle corde spezzate, come la lira che Severn scolpì sulla sua tomba, e non solo per la sua morte prematura, ma anche per la sua stessa incredibile capacità di occhieggiare nell'oltre, scorgendovi la sola verità possibile, e cioè non un diradamento, ma un addensamento del tenebroso "mist": la "visione", per chi sta "al di qua", è solo una percezione più profonda dell'oscurità. Il vero illuminato - il poeta "camaleonte", senza self, capace di assumere ogni identità perché senza più identità - è colui che grazie ai fiochi bagliori della sua psiche aperta all'amore, all'arte e alla bellezza, riesce a scrutare la trama del buio, e per questo come nessun altro è consapevole di quanto sia fitta e serrata. L'intensità del sentimento, portata all'eccesso, finisce sempre per trascolorare nel suo opposto: la negazione.
L'ultima fase della sua esistenza, quella del suo soggiorno romano, è, di questa negazione, espressione straziante e coerente. Keats è diventato afasico: non comporrà più, non scriverà più a Fanny Browne. I suoi giorni si stanno compiendo: non è più tempo di scrivere, di fare poesia: è tempo di prepararsi a viverla fino in fondo, addentrandosi effettivamente, necessariamente, nell'oscurità. Ma il suo silenzio, che è la notte della poesia, è il silenzio di chi ha detto tutto quello che c'era da dire, stabilendo un legame, una "connessione" che non ha bisogno di ulteriori parole. 
Keats, che fu anche farmacista, non ha nessuna ricetta contro la notte dell'anima dell'uomo contemporaneo. Ma da tutti i suoi scritti trapela una forza costante, quella forza che oggi molti giovani come lui rischiano di perdere: l'amore della vita, quell'amore che culmina nella grande armonia dell'Ode all'Autunno, un amore tanto intenso da condurre all'accettazione di quell'aspetto della vita da cui l'uomo comune rifugge, il limitare sul quale la vita finisce, o si trasforma in qualcos'altro, il passaggio senza il quale non c'è pienezza, poiché deathless equivale a lifeless. 
"Beauty is truth, truth beauty, - that is all/Ye know on Earth, and all ye need to know": la morte è l'unica certezza dell'uomo, e se la morte è verità è anche bellezza, e allora la questione dell'immortalità non si pone più, questo è il suo tempo, e la borderline, il between, il suo spazio. Keats è l'uomo sospeso tra due mondi, l'uomo della terra al tramonto: il suo re è il sole pieno dell'autunno che sul morire del giorno sembra voltarsi indietro e racchiudere in un unico caldo abbraccio la pienezza di vita che ha generato dal limine del buio che lo contorna, mortale e immortale assieme. Il dramma cosmico partecipa del dramma umano, in profonda comunione con gli uomini, con la natura e con un soprannaturale tragicamente occulto che Keats non cessa mai di cercare.
E il luogo di questa ricerca, di questo inseguimento appassionato, è sempre la notte, la "Tender night": l'oscurità della condizione umana, appena rischiarata da piccole, stellari scintille, minimamente confortata dai bagliori dell'amore. 
È una ricerca che rimane tutta al di qua: la notte è il punto di partenza e il punto di arrivo. Ma questo è un fallimento solo apparente. Perché nella notte, regno della sintesi, c'è tutto: è l'ineffabile notte nuziale in cui luce e oscurità, vista e visione, piacere e dolore attuano una fusione senza confondersi: e in questa suprema drammatica riconciliazione è racchiuso il culmine dell'esperienza umana.
Più di questo, Keats non arriva a dire: ha compiuto la sua strada fino in fondo, è passato "oltre". La crisi è finita. La sua luce si è affievolita fino a spegnersi, o forse piuttosto a riassorbirsi nell'infinito, ma ciò non ci riguarda più, almeno per ora. Quello che di lui ci ha lasciato, trattenuto nel nostro "aldiquà" e appartenente alle cose vere, reali, e dunque things of beauty, oltre ai suoi resti inerti racchiusi sotto la lapide di pietra grigia senza nome, è vivo e operante nei suoi sonetti, nelle Odi, e nelle sue commoventi e inebrianti lettere, scritte alle persone che più gli erano care sulla terra -  la sorellina Fanny, l'altra Fanny amore della sua vita, suo fratello George, sua cognata Georgiana, l'amico John Brown - nelle cui parole riemerge ancora oggi, vivo più che mai, lo spirito di un ragazzo che bruciò al fuoco dell'amore sciogliendosi come una candela, e che lo fece facendo poesia, che per lui era sinonimo di fare il bene.
Separandosi da chi resta, Keats usa parole tanto semplici quanto rivelatrici della tenera e nervosa gentilezza del suo animo: "sono sempre stato imbarazzato nel prendere congedo". E forse è per questo che, in qualche modo, non se n'è mai andato. Perché è singolare come, a chiunque si accosti alla sua tomba dopo essersi accostato alla sua poesia, paia proprio di sentirne aleggiare la presenza, in mezzo ai fiori e all'erba tenera; di scoprire quasi, a tratti, nella visione periferica delle pupille, un'eco sommessa e indefinibile dell'immagine di questo "giovane poeta inglese", minuto e fanciullesco per età, per purezza del cuore e per statura, che, accennando un sorriso che dissimula la squisita acutezza della sua emozione, esegue, schivo e compito insieme, un mezzo inchino.

(Buonanotte, John. Alla prossima visita)

martedì 27 gennaio 2015

Un cuore vigile

Ciò che non ricordiamo, siamo costretti a ripeterlo.







27 gennaio: Giorno della Memoria.

27 gennaio 1945: apertura dei cancelli del campo di concentramento di Auschwitz ad opera delle truppe russe.

I will survive

La tempesta perfetta pare in fase di esaurimento.
E il mio maestro jedi dovrebbe esser di nuovo in Italia, sano e salvo (altrimenti, dato il luogo in cui stava, una delle polveriere più pericolose del globo, avrei avuto brutte nuove dagli organi di informazione). E lo rivedrò tra meno di quarantott'ore.
(E faremo quello che ha detto endi.)
E, a proposito del mio maestro jedi, da quelle parti, a non troppa distanza dal suo territorio d'azione, i combattenti curdi - tra cui le bellissime ragazze fiere, laiche, straordinariamente toste e sempre sorridenti, che compaiono in foto a corredo di ogni servizio o lancio d'agenzia - hanno liberato Kobane, il che è pure una notizia meravigliosa.
E in Grecia vince finalmente, come millenni fa, la democrazia, e la speranza che ci possa essere un'alternativa politica capace di tener testa alla finanza, mostro senza volto che sta erodendo alla radice i valori primari della nostra civiltà: solidarietà, equità sociale, giustizia. Eguaglianza. Fratellanza. Libertà.

Ieri, tornando in auto per l'ennesima volta dal luogo in cui dal cinque gennaio sono andata una, più spesso due volte al giorno, ascoltando come al solito le notizie alla radio, ho sentito l'esultanza, il sollievo per l'affrancazione da un giogo insopportabile di un popolo mescolarsi all'esultanza e al sollievo per la mia personale affrancazione, inebriata dal riprendere contatto con me stessa e autonomia del mio corpo e dei miei pensieri, governo pieno sulla mia esistenza.

Una nuova leggerezza si è impossessata di me. I will survive! M'è venuto spontaneo di canticchiare allegramente, mentre mentalmente mi congedavo per l'ennesima volta - questa però con gran soddisfazione e placidità - da chi mi voltò le spalle in tempi lontanissimi lasciando, al posto di un legame tra me e lei, una ferita in me ormai cicatrizzata, un vuoto sempre più ristretto man mano che mi dilato: non con rabbia o amarezza, come sarebbe appropriato per le parole della canzone: no, con la levità variopinta, aerea, soave, del playback danzante delle meravigliose drag queen infilate in vestiti incongrui, incredibili, in mezzo al desolato, aspro outback australiano in Priscilla, regina del deserto. Ciascuna col suo carico di umiliazioni e vessazioni subite; ciascuna con la sua pena in cuore, col suo sé irrisolto, alla disperata ricerca del senso della propria vita: ma lo stesso sorridenti di un sorriso che è aureo distacco e insieme profonda empatia e intenso legame con gli altri esseri umani, che affratella la loro artificiosità emarginata nel consesso civile alla naturalezza selvaggia di altri emarginati, i nativi autoctoni del deserto, e che viene solo da dentro.

Pian piano riprenderò in mano i fili abbandonati: scriverò mail, sistemerò abiti, esaminerò pratiche, andrò a trovare amici.

Oggi ho festeggiato concedendomi l'abbandono ad una soffice, beata inerzia.

Anche questa è fatta. I will survive, ho svoltato un'altra curva e sono ancora qua.

Giubiliamo.

Stamane intanto, all'alba, ormai tra veglia e sonno, ho fatto un sogno bellissimo: ho sognato che era primavera, e io mi preparavo lieta e uscivo a farmi carezzare da un raggio di sole, e tutto era tiepido e luminoso. E no, non era andato avanti il tempo: era gennaio, proprio oggi, ventisei gennaio, ed era primavera in gennaio, e io mi dicevo, gaia e sicura, "andiamo a goderci questa primavera di gennaio!", sì, proprio così.



At first I was afraid, I was petrified,
Kept thinkin' I could never live without you by my side,
But then I spent so many nights thinkin' how you did me wrong,
And I grew strong, and I learned how to get along,

And so your back, from outerspace,
I just walked in to find you here with that sad look upon your face,
I should've changed that stupid lock,
I should've made you leave your key,
If I had known for just one second you'd be back to bother me,

Go on now go, walk out the door,
Just turn around now, 'cause you're not welcome anymore,
Weren't you the one who tried to hurt me with goodbye,
You think I'd crumble? You think I'd lay down and die?
Oh no not I, I will survive,
Oh as long as I know how to love I know I'll stay alive,
I've got all my life to live; I've got all my love to give,
And I'll survive, I will survive,
Hey, Hey!

It took all the strength I had not to fall apart,
And trying hard to mend the pieces of my broken heart,
And I spent oh so many nights just feeling sorry for myself,
I used to cry, but now I hold my head up high,
And you'll see me, somebody new,
I'm not that chained up little person still in love with you,
And so you felt like droppin' in and just expect me to be free,
Now I'm savin' all my lovin' for someone who's lovin' me.

Go on now go, walk out the door,
Just turn around now, 'cause your not welcome anymore,
Weren't you the one who tried to break me with goodbye,
You think I'd crumble? You think I'd lay down and die?
Oh no not I, I will survive,
Oh as long as I know how to love I know I'll stay alive,
I've got all my life to live, I've got all my love to give,
And I'll survive, I will survive. Oh

Go on now go, walk out the door,
Just turn around now, 'cause your not welcome anymore,
Weren't you the one who tried to break me with goodbye,
You think I'd crumble? You think I lay down and die?
Oh no not I, I will survive,
Oh as long as I know how to love I know I'll stay alive,
I've got all my life to live, I've got all my love to give,
And I'll survive, I will survive, I will survive

It took all the strength I had not to fall apart,
And trying hard to mend the pieces of my broken heart,
And I spent oh so many nights just feeling sorry for myself,
I used to cry, but now I hold my head up high,
And you'll see me, somebody new,
I'm not that chained up little person still in love with you,
And so you felt like droppin' in and just expect me to be free,
Now I'm savin' all my lovin' for someone who's lovin' me.

Go on now go, walk out the door,
Just turn around now, 'cause you're not welcome anymore,
Weren't you the one who tried to hurt me with goodbye,
You I'd crumble? D'you think I'd break down and die?
Oh no not I, I will survive,
Oh as long as I know how to love I know I'll stay alive,
I've got all my life to live; I've got all my love to give,
And I'll survive, I will survive, I will survive

mercoledì 21 gennaio 2015

Nord sud ovest est


Ho perso la bussola, l'altra settimana.
Mentre sdraiata sul lettino in penombra seguivo con lo sguardo il solito itinerario, dalla lucina sorretta a perpendicolo sopra la mia testa dal mio maestro jedi alla punta del mio naso e ritorno, e così via, a un certo punto mi sono sentita capovolta: io in alto e la lucina in basso, io divenuta lucina, la lucina diventata me. Ed è durata un po', questa sensazione di capitombolo nel fondo concavo, oscuro e vellutato percorso dai miei occhi caduti in una slabbratura, finiti in un cosmico interstizio curvo di una variante al piano geometrico euclideo.
Gliel'ho detto, al mio maestro jedi. E lui l'ha trovato uno scarto, una discrepanza, molto interessante. Che esploreremo al suo ritorno.
Sì, perché questa settimana niente sedute terapeutiche, niente lucine: lui è, per il momento, lontano, tanto lontano da me e dall'Italia, in un luogo in mezzo alle alture in cui si è annidato uno dei nuclei dell'inizio della civiltà umana ed oggi si annida uno dei focolai della minaccia alla sua fine, a fare la sua parte nella, dice lui, resistenza al sopravvento del cervello rettiliano, e tornerà, se tutto va bene, ossia, se la forza del tronco encefalico lo proteggerà, a fine mese. 
Io gli ho detto che sono fiera, e contenta, che lui abbia deciso di andare ad apportare il suo contributo di uomo a sostegno della propria ed altrui umanità. Che aderisco al suo bisogno di andare, che voglio anch'io, assieme a lui, che lui vada, sposo la sua causa e lo sostengo in questa scelta. Ma che vorrei pure che, una volta espletato questo alto compito di aiuto a creature in estremo bisogno, riscendesse da quelle perigliose altezze per tornare ad aiutare anche me, pur'io creatura ancora bisognosa di lui.
Lui ha sorriso, felice di esser supportato nella sua libertà di pigliare il volo ma anche di esser sollecitato a ritornare. Di poter sentire importante la sua presenza lì, in quel teatro di guerra folle e barbarica, a contatto con le più atroci sofferenze del mondo, tanto quanto quella accanto a me, singolo essere alle prese con i grovigli minuti delle proprie piccole, individuali follie e sofferenze.
Così, nell'attesa del mio amatissimo amico saggio alle prese col turbine degli eventi della Storia, sballottata dai refoli degli eventi della mia storia, il mio disorientamento esce dalla stanza del suo studio, tracima nel quotidiano, prende forme plastiche nelle contorsioni d'acciaio del serpente della tangenziale che percorro dal cinque di gennaio una volta al giorno, più spesso due, sotto il sole, sotto la pioggia, con la luce naturale ed artificiale, cambiando continuamente aspetto, verso, direzione dei punti cardinali, per andare a svolgere il mio, di compito: un compito ingrato, imprevisto ed usurante, che erode ogni giorno di più la mia volontà e la mia pazienza, e svalorizza il senso dei rapporti con chi mi sta accanto, e consuma il filo dei miei pensieri, tal ché non riesco, e anzi nemmeno più mi provo, colma d'una calma svogliatezza innaturale, d'una tranquilla attonita indifferenza, a bloccare il flusso delle mie immagini mentali in costrutti minimamente razionali ed ordinati atti a farmi combinare qualcosa al lavoro, rispondere a mail di persone a me carissime, leggere tre pagine di un libro, seguire mezz'ora di trama di un film, trovare il tempo e il modo di andare da un amico. Vivo sospesa, galleggiante in questa incerta assenza di gravità che m'alleggerisce come una piuma, una brezza lieve che mi trascina senza farmi sbattere, come un feto nel liquido amniotico.
Il mio maestro jedi non c'è, e in mancanza di lui, dei suoi abbracci, vengono a trovarmi in sogno per abbracciarmi altri che, non essendo mai esistiti, restano per sempre dentro di me, in sogni compensatori dolci amari vividi come realtà; e vivo una concretezza lucida, surreale, rarefatta e straniante come un sogno, confusa, sottosopra, nord sud ovest est che vorticano lentamente, senza parere, attorno a me.
Il mio maestro jedi non c'è, è a combattere la sua battaglia in nome di tutti.
Io ci sono, e combatto anch'io, in nome mio.
Ci mostreremo a vicenda le ferite, orgogliosi reduci, quando il mondo smetterà di girarmi attorno, e ci ritroveremo assieme di nuovo.

venerdì 9 gennaio 2015

Je suis Charlie



Io sono una dalle reazioni inconsulte, incongrue. Persino in circostanze che non mi riguardano, che nulla hanno, in superficie, a che fare con me. 


Una volta su due la mia risposta agli eventi - per questo, a sua volta, una volta su due esagerata - è emotiva, e proviene da una regione primaria di me stessa, un meccanismo preordinato alla corteccia frontale cerebrale, sede del linguaggio e della elaborazione analitica delle immagini. Dal sistema limbico, insomma, direbbe il mio maestro jedi, ultrà della teoria dei tre cervelli. 

Ma raramente questi impulsi reattivi pigliano direzioni così nette con tale potenza, facendomi uscire da me stessa previa espugnazione del mio fortino interiore a colpi precisi e violentissimi di ariete.

Andando a ritroso nella memoria fin dove riesco ad arrivare ricordo due sole occasioni di spicco.

Una ha a che fare con la morte di Nicola Calipari, un evento per me sconvolgente per chissà che mi fece scattare dentro da costringermi ad andare a mettermi in fila al Vittoriano ad omaggiare la salma, con un'emozione che mi faceva pulsare le vene nei polsi manco fossi ad un matrimonio. Continuando, mentre attendevo il mio turno di trovarmi davanti alla sua bara, a vedermi davanti agli occhi la scena: Calipari che, non per eroismo, non per esaltazione, semplicemente per ostinazione e professionismo esemplari, per portare a termine una missione rischiosa ma sin lì riuscita, per non farsela mandare in vacca all'ultimo momento, senza esitazione, istintivamente, si getta su Giuliana Sgrena, una donna che non fa parte della sua cerchia di affetti, che fino a quel momento non aveva mai incontrato, di cui forse nemmeno condivide le scelte, le fa scudo col suo corpo e le salva la vita scambiandola con la sua, ricevendo le pallottole destinate a lei. Mentre non mi si levava dalla testa un pensiero che mi dava le vertigini: l'aveva fatto per la Sgrena, l'avrebbe fatto per me, l'avrebbe fatto per i miei figli. L'aveva fatto per la Sgrena, l'aveva fatto a me, l'aveva fatto ai miei figli.

L'altra mi ha preso di brutto l'altro ieri, quando ho saputo della strage nella redazione di Charlie Hebdo. Con l'indignazione, la rabbia, che mi montava dentro, nell'apprendere i contorni che contribuivano a perfezionare il quadro di orrore e morte. E anche lì, come per Calipari, è scattata l'identificazione: i terroristi sono entrati in un luogo intimo e quotidiano e, per un malinteso eroismo, una cieca esaltazione, con bruta ostinazione e professionismo esemplare hanno annientato degli uomini pacificamente riuniti attorno ad un tavolo durante una riunione di lavoro a sangue freddo. E non ha smesso dal primo istante, anche qui, di turbinarmi in testa un pensiero: l'hanno fatto a loro, con un pretesto: con un altro pretesto, altrettanto arbitrario, l'avrebbero fatto a me, l'avrebbero fatto ai miei figli.

Non conoscevo le vignette di Charlie Hebdo. Non avevo visto quelle su Maometto, che pure avevano suscitato tante proteste e polemiche qualche anno fa. Ora le ho scorse, e posso dire che non mi piacciono, affatto. La loro oscenità è gratuita e spocchiosa, sterilmente provocatoria, non priva di violenza ideologica. Il Vernacoliere, in Italia, è arte sublime, a paragone.


Eppure il mio meccanismo psichico non ha avuto esitazioni, nel muovermi ad un'incazzatura bestiale per quegli assassini brutali, efferati, commessi contro chi quelle vignette aveva concepito e disegnato.

Perché una donna come me, difettosa, attivata di preferenza dal sistema limbico anziché dalla corteccia encefalica, come se fosse rimasta indietro di uno stadio evolutivo, non può concepire di accettare che esistano suoi simili rimasti, o tornati, allo stadio ancora più grezzo, quello del cervello rettiliano. 


Perché al di là delle grandi questioni - la libertà di espressione, il ruolo sociale della satira, la perniciosità del fanatismo religioso, il valore del multiculturalismo, la tolleranza, la mescolanza, la vicinanza, la testimonianza, la militanza - qui per me la faccenda sta ancora più a monte, proprio al grado zero della nuda autocoscienza individuale e collettiva: sta nella mera, elementare constatazione dell'assurdità di opporre, ad un uomo inerme, che faccia cose simpatiche od odiose, argute o idiote, amabili o insopportabili, concilianti o provocatorie, un uomo con un kalashnikov: di opporre ad una vignetta, un disegno fatto con le matite colorate!, una sventagliata di mitra in faccia, un disegno di morte. 

E' questa mostruosa sperequazione, contraria alla logica e all'intelligenza, che io respingo gonfia di rabbia, sopra tutto e prima di tutto. E' per questo che non si deve dargliela vinta, a questi subumani psicopatici.

E l'unica risposta possibile è quella di Vittorio Arrigoni: restiamo umani. Che significa, restiamo pacifici, non facciamoci coinvolgere nella dinamica di violenza estremistica, nella spirale dell'odio e della vendetta. Non rispondiamo ad un massacro che è una dichiarazione di guerra con l'accettazione di questa guerra. Opponiamo alla furia massiva l'individualità di una mente, tante menti, pensanti e autonome. Annientiamoli con la forza dell'ironia, della superiorità della corteccia encefalica sul cervello rettiliano. Facciamo veder loro che le loro azioni producono questi effetti, assolutamente antitetici e controproducenti per i loro intenti. Che per questo non ci possono sottomettere, e non potranno farlo mai.

Ad esempio, così, con questa meravigliosa, straziante, esilarante copertina per il nuovo numero di Charlie Hebdo (che andrà in edicola regolarmente tra qualche giorno), immaginata da un altro collettivo satirico francese, Les Guignols, in tributo alla metà dei morti di Charlie Hebdo, i sei disegnatori, i quali simbolicamente rappresentano tutti gli altri, caduti assieme a loro.




sabato 3 gennaio 2015

Overjoyed

A te, che vibri di sofferenza risuonando in me, il cui cuore pesante stanotte pesa dentro il mio, per le cui labbra senza sorriso anche il mio muore.
A te, che non ci sei, ti sei smarrito e non hai voglia di cercarti, e non vuoi scoprire che sto provando ad aiutarti a ritrovarti.
A te, inespugnabile, tenero e roseo nido di giovinezza, irto di finte spine, sfiorato con meraviglia, cautela e devozione.
A te, che hai avuto la generosità di ritrarti da ogni spazio, prosciugando l'eco del tuo ricordo per ogni dove, fin quasi a farmi dubitare di averti solo immaginato.
A tutti voi altri, nuovi e antichi, cari e carissimi, quotidiani e saltuari, vicini e lontani, concreti ed evanescenti, noti e presunti, reali e virtuali, giovani e vecchi, recenti e remoti, carpiti e lambiti, acquistati e perduti, che riempiste, riempite e riempirete le mie ore, i miei pensieri, i miei sguardi, i miei sogni, il mio essere.
Tutti voi io stringo forte al petto, e a tutti voi io elevo il mio canto, con gratitudine e amore. Che vi sia per voi, ovunque, bene, e gioia, e vita.



Over time, I've been building my castle of love
Just for two, though you never knew you were my reason
I've gone much too far for you now to say
That I've got to throw my castle away

Over dreams, I have picked out a perfect come true
Though you never knew it was of you I've been dreaming
The sandman has come from too far away
For you to say come back some other day

And though you don't believe that they do
They do come true
For did my dreams
Come true when I looked at you
And maybe too, if you would believe
You too might be
Overjoyed, over loved, over me

Over hearts, I have painfully turned every stone
Just to find, I had found what I've searched to discover
I've come much too far for me now to find
The love that I've sought can never be mine

And though you don't believe that they do
They do come true
For did my dreams
Come true when I looked at you
And maybe too, if you would believe
You too might be
Overjoyed, over loved, over me

And though the odds say improbable
What do they know
For in romance
All true love needs is a chance
And maybe with a chance you will find
You too like I
Overjoyed, over loved, over you, over you



venerdì 26 dicembre 2014

Still Wie Die Nacht

Non ho mai amato il Natale. Non tanto perché da bambina i regali me la portava la Befana (nella mia famiglia disfunzionale i danni venivano accresciuti dalla schizofrenia affettiva dell'esser, sì, maltrattata come una bambola di pezza, trovando però poi sempre il 6 gennaio il tavolo della sala da pranzo stracolmo di doni), com'era usanza romana ai miei tempi non consumistici, quando ancora Babbo Natale risultava, assieme alla Coca Cola, una roba americana, e la festa di Halloween manco si sapeva che esistesse. Non l'ho mai amato perché è una festa meravigliosa e impietosa, che per essere goduta presuppone la condivisione di un sentimento collettivo di serenità e sicurezza che viene dalla certezza di essere benvoluto e di avere un posto nel mondo: certezza che mi è stata preclusa sin dai miei primissimi anni di vita.
Ho invece sempre amato tantissimo Bruno Bettelheim, psicoterapeuta naturalizzato americano, direttore della Chicago Orthogenic School per bambini psicotici, pioniere delle cure della sofferenza psichica dell'infanzia, che ho conosciuto attraverso il suo libro Il mondo incantato durante il seminario sulle fiabe facente parte dell'esame di psicologia dell'età evolutiva (voto: trenta e lode), il mio primo e unico sostenuto in quella facoltà.
Divenuta madre ho spesso consultato, tra tutti i suoi, Un genitore quasi perfetto, celeberrimo testo che esplora con semplicità, saggezza, delicatezza ed ottimismo, le gioie ed i problemi che sorgono nel rapporto quotidiano con i figli. Credo di averne prestate - e mai recuperate - almeno dieci copie, ogni volta ricomprate nell'ennesima ristampa.
Tra i vari capitoli, gli ultimi tre, dedicati alle feste, mi hanno sempre commosso, come mi commuove qualsiasi cosa di cui intuisco e quasi sfioro la bellezza senza riuscire ad accedervi.
Il terzultimo si intitola "Giorni incantati".
"(...) La cosa straordinaria della magia buona dei giorni di festa è il suo potere di conferire sicurezza per tutto l'anno, quando più se ne ha bisogno, nelle situazioni più buie. I bambini lo sanno e, lasciati a se stessi, ricorrono alla forza simbolica che emana dallo spirito della festività per ricevere sostegno morale nei momenti di disperazione. Ce lo dimostra il seguente episodio, riferito dalla psicoanalista svedese Stefi Pedersen.
Quando i nazisti occuparono la Norvegia, la Pedersen fece da guida a un gruppo di profughi, tra i quali molti ragazzini, in fuga nel cuore dell'inverno attraverso le alte montagne che dividono la Norvegia dalla Svezia. Poiché la scalata era difficoltosa ed era vitale compierla nel più breve tempo possibile, tutti avevano dovuto portare con sé solo il poco bagaglio che erano in grado di reggere sulle spalle. (...) Guardando per caso nel sacco di uno dei bambini, Stefi Pedersen vide tra le poche povere cose che vi erano contenute una stellina d'argento, di quelle che si appendono all'albero di Natale. (...) Guardò anche negli altri zaini, e in tutti trovò decorazioni natalizie da pochi soldi, stelle e campane di cartone ricoperto di carta argentata. Erano quelle le cose che quei bambini (perlopiù di religione ebraica, ma di famiglie assimilate, che nel Natale non celebravano un evento religioso, ma una festa della famiglia e soprattutto una festa dei bambini) avevano scelto di portare con sé dalla Norvegia, a preferenza di qualunque altro bene: per il resto, avevano soltanto i vestiti che portavano indosso. Stefi Pedersen ne concluse che si erano portati via quei simboli di un passato felice perché essi soltanto avrebbero potuto irradiare una luce di speranza dentro la buia angoscia di un viaggio verso l'ignoto."
(---) "Le persone che da bambine hanno passato dei Natali particolarmente infelici, tendono per tutta la vita a soffrire di gravi depressioni intorno al periodo natalizio, mentre quelle che da bambine hanno vissuto esperienze felici a Natale non soffriranno in seguito di depressioni in quel periodo, neppure se hanno una vita dura e sono soli."
Insomma, la ricorrenza del Natale - che è festa religiosa e pagana, rito ancestrale di speranzosa evocazione della luce nel cuore della notte più lunga, del buio più profondo, dell'inizio dell'inverno, gioiosa celebrazione del sole che torna a salire sopra la linea dell'orizzonte e della conseguente rinnovata promessa della rinascita della vita e della terra nella prossima primavera - è un evento non neutro, con cui fa i conti l'inconscio collettivo, perché tocca corde essenziali della nostra umanità e del nostro rapporto con i nostri simili e con gli altri esseri viventi, con l'universo che ci circonda e ci sovrasta, con lo scorrere del tempo. 
Ma nei bambini, che ancora nulla sanno delle fatiche e delle angosce della vita, che cosa simboleggia quella luce di speranza, da dove attinge la sua fiamma?
Bettelheim lo spiega quasi alla fine del libro, nelle ultime pagine dell'ultimo capitolo.
" (...) tutti i bambini si domandano che effetto abbia fatto il loro arrivo ai loro genitori, se sia stato accolto con gioia oppure no. Perciò, qualunque festività che celebri la natività ha un effetto rassicurante, e tale appunto è l'evento che più evidentemente il Natale festeggia. La gioia con la quale il Cristo bambino viene accolto nel mondo, la felicità non solo dei suoi genitori ma anche dei pastori e dei tre Re Magi, viene assunta dal bambino come segno che la sua nascita fu un avvenimento gioioso per i suoi genitori e per la collettività, visto che tutti festeggiano il Natale."
Ecco qual è la luce del Natale per i piccoli: la certezza che la loro venuta al mondo sia stata una festa. Una festa talmente importante che ha segnato il corso della storia e che anno dopo anno ricomincia: una festa che li riguarda, poiché, se è Gesù che nasce, i regali in realtà li ricevono loro, ed è dunque evidente la loro associazione a quella nascita: è chiaro che è anche la loro nascita, insieme a quella di un dio bambino, che si festeggia.
Ecco, a me è mancata del tutto questa certezza fondamentale. Ogni giorno della mia esistenza recava un messaggio contrario a questo, un messaggio che mi si imprimeva nel cervello e nell'anima ogni volta con più chiarezza. Per cui per me il Natale è sempre stato un periodo dolceamaro, qualcosa di cui afferravo echi, strappavo briciole argentate, senza diritto a parteciparne. Fare il presepe, l'albero scintillante, camminare sotto le luminarie delle strade, in mezzo alle melodie sfumate delle carole suonate dalle zampogne era solo un'occasione di rimpianto per un eden da cui ero stata estromessa, un banchetto dove m'ero sempre sentita fuori della porta, non invitata, mentre gli altri all'interno si divertivano ed erano felici.
Quest'anno, invece, per la prima volta, io lo sento, il Natale. Lo comprendo, oltre ad intuirlo.
Quest'anno non ho fatto presepi né alberi addobbati. Perché non ho bisogno di luci, intorno a me.
Perché quest'anno la luce la sento dentro, mi si è accesa nel cuore.



Still wie die Nacht 
und tief wie das Meer, 
soll deine Liebe sein!
Wenn du mich liebst, 
so wie ich dich, 
will ich dein eigen sein.
Heiß wie der Stahl 
und fest wie der Stein 
soll deine Liebe sein!



martedì 23 dicembre 2014

Le invasioni barbariche

E' di oggi la notizia dell'interruzione del concerto alla Scala da parte del direttore d'orchestra Daniel Barenboim - non esattamente il primo che passa per strada, come si dice dalle mie parti - infastidito oltre ogni limite di sopportazione dall'incessante, esecrando e villano scrosciare del flash del cellulare di una signorina che invece di ascoltare con attenzione, compostezza e, direi, pudico rispetto, la delicatissima sonata di Schubert appena iniziata nella magia di un soffio di "pianissimo" e "moderato" si dava alla fotografia compulsiva. Di che, poi, non è dato intuire.

Io stessa ho assistito, nell'agosto del 2013, disorientata e poi pietrificata dallo choc, all'improvviso infrangersi della quarta parete da parte di un esasperato Maurizio Donadoni, precipitato bruscamente sulla terra assieme a tutto il pubblico dalla sospensione dell'incanto del Riccardo III a causa dell'improntitudine prossima alla bestialità di una cretina che, nell'arcano e fiabesco scenario del Globe Theatre, seduta in primissima fila proprio sotto l'attore, continuava imperterrita, nel bel mezzo del suo monologo più intenso e terribile, a messaggiare sul suo cellulare.

Di tante tragedie e minacce che ci circondano questa, che sembra così di poco conto, mi appare invece una delle più odiose e insidiose. Perché misura con impietosa esattezza l'ampiezza del vuoto cosmico dilagante nelle menti e negli animi di tanti membri del consesso umano.

L'incredibile progresso tecnologico sembra direttamente proporzionale al regresso antropologico. Gli effetti sono abnormi, le conseguenze difficilmente quantificabili.

Per ora assistiamo, spettatori inermi e impotenti, all'avanzata dei nuovi barbari: i quali, al posto della clava, agitano forsennati il telefonino. Non meno dotato di potenzialità distruttiva.

sabato 13 dicembre 2014

The age of innocence

Sono stata una bambina maltrattata e abusata. Non da estranei, ovviamente, ma proprio da coloro che avrebbero dovuto essere i custodi della mia vita, il porto sicuro della mia esistenza, la fonte primaria, essenziale, dell'amore e della considerazione per la mia piccola persona. Sono stata vessata, brutalizzata, usata, manipolata, traumatizzata, terrorizzata. E convinta, sì, sono stata convinta, da loro, che mi meritassi tutto questo, perché ero cattiva. Che la colpa di tutto questo fosse mia.

Ce ne hanno messo, per piegare la mia forza di volontà, la mia audacia infantile, la salda e incorrotta fiducia in me stessa, la mia vivacità incomprimibile, tentando con ogni mezzo di spaccarmi dentro. Nonostante i loro sforzi inesausti, la loro furibonda tenacia, sono riusciti, certo, ad incrinarmi giorno dopo giorno, in uno stillicidio atroce, incessante, ma non a rompermi. Mi hanno aperto delle crepe profonde, ma non sono riusciti a farmi a pezzi.

Oggi non mi importa più di quello che mi hanno fatto. Oggi riesco a pensare che l'hanno fatto a una bambina e io non sono più una bambina. Che perciò ora posso sopportarlo, posso assorbirlo dentro la mia carne. Che non è più grave, non fa più male. Che posso persino amarle, le violenze che ho subito, perché sono parte di me stessa, quella me stessa che ho finalmente imparato ad amare, che oggi amo, tutta intera. Che oggi persino quelle mi sono care, perché anche quelle sono me, mi appartengono, mi costituiscono, mi definiscono per quella che sono, unica, inconfondibile.

Però, se mi guardo indietro, mi dico: è stata davvero solo questione di fortuna. E' senz'altro solo per immensa buona ventura se, divenuta adulta, e cimentatami nei panni di moglie, e madre, nel vano tentativo di riavvolgere il nastro e costruirmi un'esistenza con una storia e un finale più felice, i miei cattivi spiriti, tormentandomi senza darmi requie, non sono tuttavia riusciti a farmi varcare l'infinitesimo limite, la millimetrica soglia che separa la normalità dalla tragedia, la terra ferma dal baratro. Forse è stato per grazia celeste, o per mero accidente, che quella notte in cui la giacobina di un mese e mezzo urlava per la fame io, afferrato il coltello del pane in preda al panico e all'angoscia per le sue grida, mi sia tagliata di netto la punta del dito invece di tagliare il suo tenero corpicino. Ed è senz'altro pura botta di culo se, esasperata dal pianto di ambedue i miei figli neonati che mi trivellava interiormente e rimestava nella carne viva delle mie ferite, io non ho mai procurato loro danni cerebrali permanenti nello scuotere violentemente le loro carrozzine in preda a raptus omicida. E so solo io lo sforzo terribile che in un paio di occasioni ho dovuto compiere su me stessa per non afferrarli e scaraventarli fuori dalla finestra, letteralmente.

Per tutto questo io oggi dico - di una ragazzina divenuta madre a diciassette anni; una ragazzina per cui la sua propria madre, che l'ha concepita con un uomo che non è suo marito e cresciuta indifesa e discriminata nella più completa ignoranza della questione, che di questa verità a cui le ha negato accesso per tanto tempo l'ha resa edotta vomitandogliela addosso solo durante la sua adolescenza, oggi, tramutatasi nella sua più accanita e feroce accusatrice, svelando così profondi sentimenti di odio e rancore nei suoi confronti, ipotizza scenari di efferata spietatezza, essendo capace, secondo quanto riportano i giornali, di affermare "era violenta già a sette anni" -: nessuno tocchi Veronica, Veronica è mia.